Sulla scia dei buoni risultati ottenuti con le protesi articolari di anca e ginocchio fin dai primi anni ‘70 sono stati avviati studi per mettere a punto una protesi per la caviglia ; nello specifico il primo tentativo risale a Lord e Marotte che utilizzarono uno stelo femorale montato sulla tibia in senso inverso ed un acetabolo cementato inserito sul calcagno dopo completa asportazione dell’astragalo. Negli anni successivi sono stati sviluppati diversi modelli protesici a due componenti , con impianti vincolati , semivincolati e non vincolati , con risultati generalmente molto scarsi dovuti sia alle caratteristiche biomeccaniche che al disegno protesico ; le cause degli insuccessi erano imputabili principalmente alla necessità di effettuare ampie resezioni dei capi ossei con conseguente affondamento della protesi , all’uso della cementazione , agli eccessivi vincoli tra le componenti o all’opposto all’instabilità su base meccanica. All’inizio degli anni ’90 si è registrato un rinnovato interesse nei confronti della protesi di tibiotarsica grazie all’acquisizione di maggiori conoscenze in campo biomeccanico ed alla disponibilità di nuovi materiali che hanno consentito di realizzare disegni protesici più fedeli all’anatomia della caviglia , alla cinematica articolare , alla stabilità legamentosa ed all’allineamento meccanico.
Le protesi di caviglia utilizzate attualmente sono tutte a tre componenti con due parti metalliche a contatto rispettivamente della tibia e dell’astragalo ed una componente in polietilene interposta ; a seconda dei disegni protesici il polietilene può essere fissato alla componente tibiale e pertanto consentire solo movimenti di flessoestensione sulla componente astragalica (“protesi a menisco fisso” o “fix bearing”) oppure essere svincolato dalla componente tibiale e pertanto consentire anche movimenti rotatori sul piano trasverso e limitati movimenti in anteroposteriore (“protesi a menisco mobile” o “mobile bearing”). Le protesi “mobile bearing” comportano minori sollecitazioni sull’intefaccia osso/impianto ed una teorica maggiore possibilità di movimento ; per contro sono maggiori le sollecitazioni su legamenti e tendini periarticolari , maggiore l’usura del polietilene , più frequenti gli impingement malleolari ed un minor controllo della posizione sul piano sagittale. Non esistono tuttavia ad oggi dati certi sulla possibile superiorità tra le diverse tipologie protesiche a menisco fisso o mobile. Tutte le protesi attuali hanno sistemi di fissazione primaria all’osso che rendono superfluo l’uso della cementazione ed un disegno che comporta stabilità reciproca delle componenti.
In particolare i seguenti aspetti:
- eliminare o ridurre significativamente il dolore
- mantenere o ripristinare un adeguato movimento articolare della caviglia specie in flessione dorsale
- una sopravvivenza adeguata dell’impianto
- la possibilità di revisione in caso di fallimento.
In generale i risultati sul miglioramento del dolore e sul recupero articolare sono molto buoni , almeno nel breve/medio periodo ; le incognite sono ancora la reale sopravvivenza nel tempo dell’impianto , sicuramente inferiore a quanto si verifica nell’anca o nel ginocchio , e soprattutto la possibilità di revisione in caso di fallimento.
In generale le indicazioni sono rappresentate delle gravi artropatie degenerative o infiammatorie dell’articolazione tibiotarsica che non rispondono più a trattamenti conservativi. Si tratta di condizioni che alterano gravemente l’attività motoria ed in generale la vita quotidiana dei Pazienti ; si stima che comportino lo stesso grado di disabilità riscontrato in caso di insufficienza renale cronica avanzata o di cardiopatia cronica congestizia.
Le indicazioni all’intervento , in particolare come alternativa all’artrodesi , si sono modificate negli anni , anche se non esiste un consenso unanime sull’argomento ; attualmente la tendenza prevalente è di utilizzare la protesi in tutte le artropatie di tibiotarsica di grado avanzato , ad eccezione delle seguenti situazioni che rappresentano controindicazioni assolute all’uso della protesi
- neuroartropatie (artropatia di Charcot)
- infezioni articolari attive o dubbie
- compromissione dei tessuti molli periarticolari
- importanti perdite di sostanza ossea comunque non emendabili con innesti
- importanti deviazioni o malallineamenti
- instabilità articolare per insufficienza legamentosa o muscolare
- necrosi dell’astragalo > del 50%
- disfunzioni sensitivomotorie dell’arto inferiore
Rappresentano invece controindicazioni relative l’osteoporosi , le gravi rigidità articolari , l’obesità , le infezioni pregresse , il diabete mellito ID , le terapie con steroidi o immunosopressori , le attività lavorative impegnative e la prevedibile scarsa collaborazione.
Indicazioni elettive alla protesi sono invece le artropatie bilaterali , i pazienti già portatori o candidati a protesi di anca o di ginocchio , le poliartropatie (es l’artrite reumatoide) , le rigidità del retromesopiede o comunque situazioni in cui le articolazioni distali alla tibiotarsica non assicurano una flessione dorsale di almeno 10°-15°.
Questo è un punto molto critico in quanto almeno un terzo dei possibili candidati alla protesi di caviglia è rappresentato da soggetti relativamente giovani che hanno problemi di artrosi di caviglia secondaria a fratture articolari. Il concetto generale che informa la chirurgia protesica è quello di utilizzare gli impianti in soggetti possibilmente di età superiore ai 60 anni per evitare successivi interventi di revisione ; questo concetto è relativamente superato nell’anca e nel ginocchio dove la sopravvivenza degli impianti ha raggiunto valori importanti e dove la chirurgia di revisione è ben collaudata. Per quanto riguarda la caviglia l’impiego della protesi in soggetti relativamente giovani non è strettamente controindicato in quanto permette il risparmio delle articolazioni adiacenti ; inoltre il perfezionamento tecnico degli impianti , la loro maggiore sopravvivenza e la possibilità di effettuare interventi di revisione o , nella peggiore delle ipotesi , di convertire la protesi in artrodesi , consente un maggiore ottimismo sui risultati. Sembra inoltre che l’età non influisca significativamente su durata dell’impianto , complicanze e interventi di revisione.
La conoscenza del numero esatto degli interventi eseguiti in un determinato Paese dipende dall’esistenza di un Registro Nazionale degli impianti che al momento in Italia non è ancora completamente attivo. Si stima comunque che vengano eseguiti oltre 500 interventi/anno , numeri comunque molto lontani dagli impianti protesici di ginocchio o anca. A livello mondiale sono relativamente pochi i Paesi che dispongono di un Registro Nazionale (Australia , Nuova Zelanda , Svezia , Finlandia, Norvegia , Inghilterra/Galles/Irlanda del Nord) ; in Paesi come gli USA , dove indubbiamente vengono eseguiti molti impianti , solo una minima parte rientra in sistemi di raccolta dati. A livello mondiale il trend del numero degli impianti eseguiti è comunque in deciso aumento se si pensa che , solo limitandosi ai casi forniti dai registri disponibili , si è passati da 124 impianti nel 2000 ai 1070 del 2012.
Esistono tuttora diversi problemi nella valutazione della sopravvivenza delle protesi di caviglia. I principali sono la mancanza di Registri Nazionali in molti Paesi , le casistiche poco omogenee relativamente al modello protesico , criteri di selezione dei pazienti , curva di apprendimento dei chirurghi, ecc…; inoltre la terminologia utilizzata nei lavori scientifici sull’argomento introduce talvolta ulteriori elementi di confusione (i termini “revisions” , “additional procedures” , “reoperations” che indicano situazioni diverse tra loro vengono spesso utilizzati indifferentemente) ; inoltre per alcuni modelli protesici , comparsi relativamente da poco sul mercato , manca un adeguato follow-up. Per le protesi di I^ generazione , attualmente non più utilizzate , i risultati erano piuttosto scoraggianti con una sopravvivenza degli impianti di poco superiore al 50% e con solo il 20% di risultati soddisfacenti a 15 anni. Si stima che la sopravvivenza degli impianti attualmente maggiormente utilizzati sia del 90% a 10 anni e di circa 60-80% a 20 anni.
Va intanto detto che il tasso di complicanze nella protesi di caviglia è decisamente più alto di quanto si riscontra nell’anca o nel ginocchio , circa 2-3 volte maggiore. Distinguiamo le complicanze in complicanze minori , che non richiedono la rimozione dell’impianto , e complicanze maggiori , che invece richiedono la rimozione della protesi o di parte delle componenti. Tra le prime citiamo i problemi di cicatrizzazione cutanea , le fratture intraoperatorie , gli impingement delle docce malleolari. Tra le seconde la più temibile è l’infezione profonda che incide per oltre il 4% dei casi in particolare per la relativa superficialità dell’articolazione e per la frequenza di soggetti con artropatie infiammatorie , spesso in terapia con steroidi o immunosopressori , o post-traumatiche. Sono considerati fattori di rischio per infezione periprotesica precedenti interventi chirurgici , precarie condizioni cutanee , deiescenza della ferita chirurgica , terapia cortisonica , durata dell’intervento (quindi i casi più complessi) , mentre sembrano avere minore influenza l’obesità , il fumo ed il diabete. La mobilizzazione asettica ed il possibile affondamento delle componenti rappresenta un’altra complicanza che richiede la rimozione della protesi. Le cause che portano a questo fallimento sono numerose e spesso concomitanti ; le principali sono il malallineamento delle componenti protesiche , la formazione di cisti periprotesiche o di osteolisi , la migrazione delle componenti , la vascolarizzazione dell’astragalo ed eventuali necrosi ossee ; spesso è in gioco anche lo specifico disegno protesico.
Molti fattori possono concorrere ad ottimizzare il risultato ; quelli più rilevanti sono i seguenti
- criteri di inclusione o esclusione: la scelta del Paziente è molto importante in particolare per quanto riguarda fascia di età , abitudini di vita , comorbidità ed in particolare condizioni locali come alterazioni morfologiche dei capi articolari , deviazioni angolari , necrosi parziali , problemi legamentosi o muscolotendinei , ecc…. ; alcune di queste condizioni possono ovviamente rappresentare controindicazioni relative all’intervento
- esperienza del Chirurgo : si stima che la curva di apprendimento per la chirurgia protesica di caviglia sia di almeno 50 casi e che occorra eseguire almeno 10 interventi per anno per mantenere la necessaria abitudine a questa specifica chirurgia
- modello protesico : è auspicabile evitare di utilizzare differenti modelli protesici in quanto è necessario un adeguato training per acquisire una buona manualità e correttezza di uso dei differenti strumentari , in particolare in situazioni con una situazione anatomica fortemente alterata
- rispetto rigoroso dei tempi chirurgici e della gestione del post-operatorio.
In definitiva i presupposti per un corretto funzionamento della protesi sono le corrette indicazioni in particolare la presenza di adeguato bone stock , un corretto allineamento sopra e sottosegmentario , il corretto posizionamento delle componenti in particolare relativamente a centro di rotazione articolare ed isometria legamentosa , corretta selezione dei pazienti ed adeguata informazione.
Recentemente una tecnologia che indubbiamente favorisce il miglioramento dei risultati è l’impiego del PSI (Patient Specific Instrumentation) ; il procedimento consiste nel realizzare uno studio TC in tre dimensioni della caviglia da operare e di pianificare il posizionamento della protesi con un opportuno programma computerizzato ; vengono pertanto ricavate sulla base di questo studio maschere di taglio personalizzate per il singolo Paziente che permettono di eseguire i tagli tibiale ed astragalico nel modo ottimale e di verificare preliminarmente taglia delle componenti , bilanciamento legamentoso , eventuale rimozione di mezzi di sintesi presenti , ecc…minimizzando le incognite che potrebbero presentarsi nel corso dell’intervento.
Normalmente il Paziente viene dimesso in II^ giornata con una doccia che viene matenuta 2-3 settimane sino a completa cicatrizzazione della ferita chirurgica ; successivamente viene posizionato un tutore tipo Walker con il quale è concesso un carico protetto e che può essere rimosso per la fisioterapia quotidiana , in particolare mobilizzazione articolare e rinforzo muscolare ; alle 8 settimane dall’intervento viene eseguita una radiografia di controllo per la rimozione del tutore e l’inizio del carico a tolleranza ; ovviamente la fisioterapia viene protratta fino ad un recupero funzionale adeguato.
Una volta stabilizzato il risultato post-operatorio viene consigliata una normale attività fisica evitando carichi eccessivi ed attività sportive di impatto come corsa e salti ; non ci sono particolari limitazioni per la deambulazione evitando ovviamente gli eccessi. Relativamente all’attività sportiva sono concesse attività in relativo scarico come nuoto , sci e bicicletta mentre attività di impatto (corsa e balzi) sono sconsigliate.
Esistono sostanzialmente due possibilità cioè la sostituzione della protesi o la conversione in artrodesi. L’impianto di una nuova protesi è una soluzione praticabile in oltre il 50% dei casi a condizione che esista un bone stock adeguato e che non siano presenti alterazioni importanti a carico dei tessuti molli. In questo caso si può ricorrere all’impiego di protesi ordinarie , magari con l’uso di innesti ossei per colmare piccole perdite di sostanza , oppure all’uso di protesi da revisione che hanno dimensioni e spessori maggiori in modo da sostituire l’intera troclea astragalica e/o l’estremo distale della tibia e spesso dispositivi di ancoraggio endomidollare alla tibia e con viti all’astragalo ; va tuttavia sottolineato come la chirurgia di revisione sia attualmente poco praticata e le esperienze in merito piuttosto limitate. Gli impianti attualmente utilizzati prevedono resezioni ossee molto economiche e quindi consentono di convertire la protesi in artrodesi con relativa facilità. Se la perdita di sostanza ossea è contenuta , una volta rimosse le componenti protesiche , vengono inseriti innesti ossei auto o omoplastici di adeguate dimensioni per evitare la perdita in lunghezza dell’arto e si provvede alla stabilizzazione della sola articolazione tibiotarsica in genere con l’impiego di una placca anteriore e viti. Quando la perdita di sostanza ossea è più importante ed associata a compromissione dell’astragalo e/o interessamento contemporaneo dell’articolazione astragalo-calcaneale la procedura non cambia ma le dimensioni degli innesti sono ovviamente maggiori e la stabilizzazione viene in genere eseguita con un chiodo endomidollare retrogrado.
Le sfide che ci attendono nei prossimi anni sono numerose in quanto occorrerà lavorare per
- migliorare le conoscenze sulla biomeccanica della caviglia normale e patologica
- migliorare e/o perfezionare il disegno protesico e gli strumentari ancillari
- progredire sui programmi PSI ed eventualmente sulla chirurga robotizzata per ridurre al minimo gli errori di posizionamento dell’impianto
- progredire sugli interventi di revisione in particolare relativamente alla realizzazione di componenti “custom made” cioè fabbricate per il caso specifico andando a colmare perdite di sostanza eventualmente presenti
- ottimizzare la valutazione dei risultati , strumento indispensabile per avere informazioni sulla durata degli impianti e le possibili problematiche secondarie.